Ognuno di noi gira con dei modelli in testa: un modello di società, di famiglia, di impresa, di educazione, di scuola, del proprio futuro, ecc. Analogamente, quando si osserva, si entra o si investe in una banca, si ha in testa un modello col quale ci si confronta. In privato, mi è stato chiesto di indicare il mio modello di banca; dunque, per capire i miei punti di vista, il lettore ha giustamente la necessità di capire qual è il modello che ho in testa e rispetto al quale confronto le situazioni effettive che commento.
La mia opinione è che una banca sia un’azienda di credito; un’azienda cioè che, a proprio rischio, si interpone fra soggetti in avanzo e soggetti in disavanzo finanziario. Quindi un’azienda, che può svolgere efficacemente la sua funzione nella società se è solida, cioè se macina profitti e li accumula per rafforzarsi patrimonialmente. Il suo patrimonio, infatti, è il primo presidio che fronteggia i rischi del core business per non scaricarli sui creditori (i depositanti e gli obbligazionisti). E, nel mondo capitalistico occidentale, l’impresa bancaria tende ad essere solida se è una società di capitali quotata: i cui proprietari, cioè, sono i capitalisti, coloro che dispongono di capitali e che li investono e li reinvestono nel business bancario (capitale sociale, c.s., e riserve del patrimonio, r.).
Alla partenza di un business bancario, dunque, vi è una società capitali: l’ordinamento prevede, infatti, che per ottenere una licenza bancaria si debba disporre di una società di capitale e di un capitale sociale minimo: esso rappresenta la disponibilità iniziale della società a fronteggiare il rischio in proprio e non a carico di terzi.
Ma quali sono i rischi dell’attività bancaria?
Il business bancario consiste, anzitutto, nell’assumere rischi di credito, cioè prestare ai clienti del potere d’acquisto (Schumpeter): il rischio è rappresentato dalla possibilità che, alla scadenza pattuita, il prestito risulti `incagliato’ (cioè, non venga restituito, e/o non si riesca a sostenerne il costo, e/o non si riesca a rinnovarlo).
L’altro rischio è il rischio di liquidità, cioè il rischio che il prestito concesso originariamente divenga successivamente meno conveniente (in sé o in rapporto ad altre opportunità di investimento) e non sia trasferibile a terzi a condizioni convenienti.
Per fronteggiare questi rischi, da circa 40 anni, il Comitato di Basilea ha stabilito che essi debbano essere proporzionati al patrimonio netto (c.s. + r., il c.d. CET1). Come in qualsiasi impresa capitalistica, sono i capitalisti ad assumere e fronteggiare, in prima battuta, i rischi; successivamente, i rischi vengono assunti dai creditori (i depositanti e gli obbligazionisti). Se l’impresa bancaria è quotata, il mercato ha la possibilità di giudicare e seguire l’efficacia e l’efficienza della società sulla base dei prezzi e dei rendimenti attesi: in questo modo è possibile alcuni investitori sostituiscano altri investitori, a seconda delle rispettive opinioni in tema di combinazione fra propensione al rischio e aspettative di rendimento.
Se l’azienda di credito si specializza nel breve termine (banca commerciale, o ordinaria, o a breve termine, o di deposito), concederà potere d’acquisto a scadenze ravvicinate (cioè per brevi periodi di tempo); se si specializza nel medio/lungo termine (banca a m/l termine) concederà potere d’acquisto per scadenze più lontane nel tempo (cioè per periodi più lunghi).
Se ci soffermiamo sulle banche commerciali, possiamo osservare che è possibile che i clienti affidati incontrino delle difficoltà nel rispettare le scadenze pattuite per i prestiti contratti per cui, tendenzialmente, è possibile che gli attivi bancari divengano meno fluidi di quanto si era ipotizzato; d’altra parte i passivi bancari, indipendentemente dalla sorte degli attivi, mantengono il livello di esigibilità pattuita con i creditori. Può così crearsi una discrasia fra scadenza media degli attivi (che si allunga) a parità di scadenza media delle passività che non seguono il medesimo andamento, dato che sono soggette a negoziazioni indipendenti dalle prime. Ne segue la necessità per l’azienda di credito di agire su due fronti: quello dell’analisi reddituale e quello dell’analisi finanziaria.
Sul fronte dell’analisi reddituale, la banca cercherà di mantenere una differenza fra ricavi e costi sufficiente a remunerare gli investitori (con i dividendi) e ad aumentare le riserve (r.); sul fronte dell’analisi finanziaria dovrà cercare di contemperare le scadenze medie dell’attivo con quelle del passivo per il tramite dell’Assets Liabilities Management (ALM): sarebbe, infatti, molto rischioso avere un set di passività prevalentemente a vista a fronte di un set di attività prevalentemente a scadenza o scarsamente liquidabili.
Siccome però è normale che i rischi degli attivi tendano a modificarsi e ad aumentare, è altresì normale che l’esigibilità dei passivi tenda ad essere stabile: la banca così ha la convenienza a fronteggiare questo evento, questa discrasia, che mi appare ineludibile, e cercherà di convincerà i creditori a modificare le scadenze di esigibilità dei loro averi (ad es. convincerà i depositanti a sostituire la detenzione di depositi a vista con depositi vincolati, o con obbligazioni della banca medesima o, meglio, di altro emittente.