Maggior reddito senza un corrispondente aumento della produttività si può ottenere solo indebitandosi. E infatti fra il 2000 e il 2010, l’anno del primo salvataggio, la Grecia ha speso ogni hanno (a debito) oltre il 10 per cento in più di ciò che produceva. Il risultato è che in quel periodo il debito salì dal 100 al 146 per cento del Pil. Insomma quegli anni sono stati per molti greci una grandiosa festa di consumi e di vacanze (pensionamenti a cinquantenni). Se quei prestiti fossero invece stati impiegati in investimenti produttivi, e ci fosse stata qualche liberalizzazione, oggi la Grecia sarebbe in grado di ripagarli e il reddito pro capite sarebbe ben piu alto di quello che è. Invece sono stati spesi in consumi, privati (grazie ad un’evasione fiscale endemica dei ricchi) e soprattutto pubblici.
Anche le Olimpiadi del 2004 hanno contribuito, ma per una quota minore: 11 miliardi di euro, un quinto del debito contratto negli anni precedenti le Olimpiadi. E chiusi i Giochi, che nessuno obbligò la Grecia ad organizzare, il Paese ha continuato imperterrito a indebitarsi. È vero che la Grecia ha una spesa militare elevata (più dell’Italia e della Germania, ma meno di Francia e Regno Unito in rapporto al Pil), che in parte va in acquisti di materiale militare all’estero. Ma nel 2009, ad esempio, a fronte di un indebitamento complessivo di 36 miliardi di euro le importazioni di materiale militare furono (solo) 2 miliardi: un quarto dalla Germania, un quarto dalla Francia, il resto dagli Stati Uniti.
Dal 2010, il costo della crisi è stato molto elevato. Il reddito pro capite, che come detto aveva raggiunto oltre l’80 per cento di quello tedesco, è oggi arretrato al 60, inferiore persino al livello del 1980, l’anno prima che la Grecia entrasse nell’Unione Europea. Sarebbe stato meglio fare default totale (non parziale come accadde) e uscire dall’euro allora? Forse, ma non lo sapremo mai con certezza. La Grecia è un’economia molto chiusa: esporta non più del 25 per cento di quanto produce contro il 30 per cento dell’Italia e il 45 per cento della Germania.
La svalutazione, anche se non si fosse tradotta tutta in maggiore inflazione, avrebbe aiutato meno che altrove. Le ripercussioni finanziarie sulle banche, sul credito e quindi sull’economia di un default e di un’uscita dall’euro erano imprevedibili. Il pericolo di contagio nel 2010 era altissimo, ricordiamoci i tassi al 6-7 per cento sul debito italiano che pagavamo nel 2011. Quei tassi costrinsero il governo Monti a politiche di austerità urgenti che si tradussero (purtroppo) in un aumento di imposte. Un contagio generalizzato poteva innescare una seconda crisi finanziaria.
Certo dal 2010 ad oggi la Grecia ha pagato caro i suoi errori. Ma un luogo comune (sbagliato) è che la Grecia in questi ultimi anni sia stata soffocata dal peso degli interessi sul debito. Dal 2010 al 2014 la Grecia ha continuato a ricevere dai Paesi europei, dalla Bce e dal Fondo monetario un flusso netto positivo di aiuti, cioè più denaro di quanto dovesse pagarne in interessi sul suo debito estero (Ken Rogoff e Jeremy Bulow, http://www.vox.eu). Solo quest’anno, dopo che Tsipras ha arrestato il processo di riforme, il flusso netto è diventato negativo. E con esso la crescita. Dopo anni di recessione la Grecia nel 2014 aveva ricominciato a crescere: quest’anno il segno è di nuovo negativo.
Questi sono i numeri. Il resto è ideologia e politica. Se la Grecia geograficamente si trovasse al posto del Portogallo, anziché nel mezzo del Mediterraneo fra Siria e Turchia, sarebbe già fuori dall’euro. Conoscendo bene la geografia politica Tsipras l’ha usata per cercare di ricattare l’Europa. Gli è andata male. Se farà quanto domenica notte si è impegnato a fare è improbabile che il suo governo sopravviva. La Grecia forse sì, se un altro governo ci riuscirà. In quel piano ci sono quasi tutte le riforme che da anni il Paese avrebbe dovuto fare e non ha mai fatto, dalle liberalizzazioni alle privatizzazioni (il cui ricavato verrà destinato ad un fondo speciale sotto il controllo dei creditori, in modo che i greci non possano spenderlo) alla riforma del sistema fiscale e della giustizia civile. C’è anche la promessa implicita, dei creditori, ad allungare la scadenza del debito e ridurne gli interessi, cioè a tagliarlo significativamente.
Funzionerà tutto questo o tra sei mesi saremo al punto di oggi? Il risultato del referendum del 5 luglio non lascia ben sperare, ma stiamo a vedere.

Crisi greca, bolla cinese, nuove regole Bce: tre fattori destabilizzanti per le banche italiane, che più forti del caldo torrido di questi giorni stanno tenendo nel congelatore la partita finanziaria più importante degli ultimi vent’anni, quella che riguarda l’atteso risiko delle popolari. Una partita che ha il suo campo di battaglia principale nei “Territori del Nordest” e che nelle prossime settimane inevitabilmente entrerà nel vivo, ma che per ora ha visto muoversi un solo carrarmatino: quello della BpVi di Francesco Iorio che spiazzando tutti (compreso qualche membro del cda come l’industriale Giuseppe Zigliotto, che pur votando a favore in consiglio è contrarissimo all’operazione, almeno per quanto riguarda la tempistica) ha annunciato di voler procedere subito con la trasformazione in spa in autunno, per poi quotarsi in Borsa entro marzo 2016. Una scelta inattesa, opposta alla strategia da sempre perseguita dal presidente Gianni Zonin – il cui mandato però scadrà con la trasformazione in spa e che perciò non tiene più il timone dell’istituto – e che per i soci ansiosi di vendere le azioni e incassare qualche euro sonante significa tanto dolore, col titolo che dopo la svalutazione da 62,5 a 48 euro, in Borsa potrebbe quotare tra i 30 e i 35 ma c’è chi ipotizza si possa scendere a 25 e nell’immediato anche sotto.
Ma perché questa scelta che contraddice apertamente tutto ciò che il management e i soci hanno detto e deliberato fino all’assemblea dello scorso aprile? La spiegazione ufficiale è che la Borsa rende liquide le azioni, che dopo il blocco del fondo acquisto da parte della Bce non hanno più mercato. Il che è vero, ma i prezzi ipotizzati sono così bassi che la scelta sta facendo imbufalire i 120mila soci, di cui alcuni sono già sul piede di guerra e si sono rivolti alle associazioni dei consumatori perché si sentono traditi e danneggiati. Allora la spiegazione di un osservatore esterno come Fabio Bolognini, consulente finanziario e autore del blog “Imprese+Finanza”, è che «non si potesse fare altrimenti». «Secondo me servono molti soldi. Le nuove verifiche sui conti da parte della Bce – dice – stanno imponendo nuovi accantonamenti. Servirà perciò un forte aumento di capitale (si parla di 1,5 miliardi, ndr), e gli azionisti storici vicentini non bastano: alcuni infatti non hanno più le possibilità finanziarie di sostenere la banca, mentre altri potrebbero anche farlo ma non daranno di nuovo fiducia a Gianni Zonin».
La Borsa, insomma, come strada obbligata per trovare investitori e rafforzare un patrimonio ancora insufficiente. «Da questo punto di vista – dice Bolognini – la Borsa funziona a meraviglia, tanto che pure due banche disastrate come Mps e Carige sono riuscite a condurre in porto gli aumenti. Questo perché in Borsa c’è tutto il mondo, dai fondi istituzionali agli speculatori: gente che sa benissimo che il titolo può anche scendere, ma che prima o poi un 30% lo guadagnerà rispetto ai livelli della Ipo, e a quel punto venderanno». Certo che per i soci storici non seguire l’aumento significa accattare una forte svalutazione dell’investimento: «Io credo che la svalutazione compiuta a inizio 2015 sia ancora insufficiente. A spanne mi viene da pensare che serva ancora uno sconto del 30% – dice Bolognini – perciò vedrei il titolo tra i 30 e i 35 euro, mentre non concordo con chi lo valuta 25 perché un rapporto di 0,6 tra patrimonio e capitalizzazione è bassissimo. Il vero tema – aggiunge – è però capire quale sarà il futuro, perché oggi le banche non guadagnano più. Non sono redditive, tutte quante, mica solo le popolari: il ritorno sul capitale è infatti più basso del costo del capitale, e gli immobili continuano a svalutarsi. Finché non ci dicono come pensano di fare i soldi – conclude – non è molto razionale investire nelle banche».
Ma la Borsa non significa solo trovare risorse necessarie al rafforzamento patrimoniale. Significa anche prender tempo rispetto all’idea di fondersi con qualche altro istituto. Il ragionamento che molti osservatori fanno è infatti il seguente: posto che nell’immediato il valore del titolo scenderà molto, Vicenza avrà bisogno di tempo (almeno qualche mese) per recuperare peso in Piazza Affari. Perciò qualsiasi progetto di fusione in via Framarin sarà rimandato a fine 2016 se non dopo. Questa conseguenza incide direttamente sulle aspettative della altre due venete: il Banco Popolare ma soprattutto la Veneto Banca di Vincenzo Consoli. La prima fase dell’incarico di consulenza affidato da Montebelluna a Rothschild si è infatti chiusa, ma il processo di M&A è ancora ai blocchi di partenza. Le ipotesi oggetto di valutazione sono per ora sempre le stesse: fusione con una non-quotata, fusione con una quotata italiana o straniera, incorporazione di banche più piccole così da fare di VB il polo aggregante. Tuttavia la terza ipotesi è più scolastica che concreta, e la prima è caduta nel momento in cui l’unica non quotata ha deciso di quotarsi (strada che a questo punto potrebbe imboccare anche Montebelluna, ma al momento non risulta che a Treviso vogliano emulare i cugini Berici). Non resta che la seconda: fusione con una quotata, italiana o straniera.
E nella ridda di ipotesi, rumors, scenari e suggestioni che circolano in questa calda estate, pare che uno dei candidati più autorevoli sia proprio il Banco Popolare di Pier Francesco Saviotti (gira la voce che l’offerta di cui si starebbe discutendo sarebbe di 20 euro ad azione: cifra generosa se si considera che la azioni di Veneto Banca sono state svalutate da 39,5 a 30,5 euro nell’ultima assemblea, e di questi tempi uno sconto del 30% non è certo una rapina). Qui però si entra in un territorio davvero rischioso perché la realtà dei fatti è che in questa fase tutti parlano con tutti. Perciò il Banco e VB potrebbero entrare all’interno di una partita ancora più grossa (nell’analisi qui a fianco Lucio Bussi registra che ci sarebbe un interesse da parte dei catalani di Santander), ma se alla fine tutto saltasse non si può escludere che anche Montebelluna segua la strada della Borsa e del momentaneo stand-alone.
@dpyri